Quando il tribunale social sentenzia una condanna di morte

Come per molti sistemi giuridici basati sul diritto romano o sul common law, anche in Italia vige il principio di “presunzione di innocenza“. Ciò significa che una persona è considerata innocente finché la sua colpevolezza non è stata provata in un processo giudiziario. Questo principio è sancito dall’articolo 27 della Costituzione Italiana, il quale afferma che “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva“. Un principio che online non sembra essere conosciuto, oppure deliberatamente ignorato, come dimostra una scioccante diretta in cui un tiktoker bolognese si è tolto la vita.

Il principio annoverato nella Costituzione, è utile a garantire un processo equo e per proteggere i diritti dell’imputato. Qualcosa di cui non si tiene conto nel corso di un linciaggio mediatico o dalla giustizia sommaria online. La cui ferocia, questa volta, ha condannato a morte Vincent Plicchi, @Inquisitor su TikTok. Il ragazzo di 23 anni, cosplayer con centomila follower sul social cinese, è stato accusato di pedofilia da una ragazza diciasettenne. La gogna mediatica ha preso di mira il tiktoker che non ha retto alla pressione e ha scelto la piattaforma che utilizzava per esprimersi per togliersi la vita, nel corso di una diretta scioccante. Ora sarà la Procura a indagare sulla vicenda e scoprire più dettagli sull’accaduto.

Che l’effettiva colpevolezza di Vincent Plicchi venga confermata o smentita (benché i primi indizi riportati dalle varie testate, sembrano rivelare un inganno ai danni del cosplayer) sono diversi i motivi, perlopiù psicologici, che portano gli utenti dei social media a puntare il dito senza che “l’imputato” sia stato definitivamente condannato o ancora sottoposto a processo.

Gli schermi da cui gli utenti consumano i contenuti portano ad una serie di dinamiche. In genere ci si sente al sicuro da un falso anonimato che toglie ogni inibizione e porta ad esprimere le proprie convinzioni, in modo esasperato. Si verifica anche quello che viene definito un processo di disumanizzazione. Le persone dietro gli schermi non vengono considerati reali esseri umani, dinamica che li espone a comportamenti negativi, insulti o addirittura umiliazione. Questo può essere incentivato dal bisogno delle persone di sfogare le proprie frustrazioni e di conformarsi ad opinioni prevalenti all’interno di una comunità online, benché possano essere basate su informazioni errate o incomplete. Questo può essere anche dovuto ad un effetto di polarizzazione di opinioni esistenti che possono creare camere d’eco che rafforzano le convinzioni di cui prima.

C’è anche un altro effetto che interviene, ovvero la diffusione della responsabilità. Essa può manifestarsi in vari contesti, inclusi i social media. Ad esempio, in una situazione di linciaggio mediatico, le persone potrebbero sentirsi meno responsabili delle loro azioni perché vedono che molti altri stanno partecipando al comportamento negativo. Questo può rendere più facile per gli individui agire in modi che potrebbero considerare inaccettabili o immorali se fossero da soli.

Ma c’è anche chi agisce sotto l’effetto di una sorta di buona fede. Questa spinta può essere un contributo ad una forma di giustizia, che porta alla punizione di chi viene percepito come colpevole. Anche se il processo non è terminato o nemmeno iniziato. Quali che siano i motivi per cui gli utenti partecipino o diano inizio ad una gogna mediatica, il principio della “presunzione di innocenza” viene a mancare. Un principio però che potrebbe non essere conosciuto. Questo perché non esiste un “manuale di istruzioni” per l’utilizzo dei social. Se le lettere dell’UE alle maggiori piattaforma social prendono in considerazione i contenuti violenti e di disinformazione (per cui recentemente la stessa TikTok ha collaborato con Europol) manca una vera e propria supervisione dei commenti o le reazioni ai contenuti.

Una volta a scuola si studiava “educazione civica”. Qualcosa di cui spesso nel corso degli anni si sentiva la mancanza, in particolar modo dagli adulti, quando ci si lamentava dei comportamenti dei più giovani. Servirebbe qualcosa di simile non solo per la realtà, ma anche per l’uso dei social media. Se è sacrosanto che le piattaforme devono supervisionare i contenuti illegali, come li definisce la Commissione Europea, è anche vero che il popolo social dovrebbe avere maggiore responsabilità su quanto commentato. Come dimostra tragicamente la morte di Vincent, la responsabilità per le proprie azioni online sembra essere un concetto sconosciuto a persone di tutte le età.

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Giornalista pubblicista, SEO Specialist, fotografo. Da sempre appassionato di tecnologia, lavoro nell'editoria dal 2010, prima come fotografo e fotoreporter, infine come giornalista. Ho scritto per PC Professionale, SportEconomy e Corriere della Sera, oltre ovviamente a Smartphonology.